L’incomunicabilità di Antonioni
Solitudine, alienazione e disagio esistenziale: tutte le sofferenze dell’animo umano racchiuse in una trilogia
“Antonioni mi ricorda Hopper” è una frase che ho scritto nelle note del mio telefono subito dopo la visione de L’eclisse, ultimo capitolo della trilogia dell’incomunicabilità. Essa esprime una similitudine che, a pensarci bene, non è casuale, dato che Edward Hopper, artista statunitense, è definito “pittore del silenzio”. I suoi paesaggi immobili e sospesi sono abitati da figure solitarie e alienate, immerse in un’atmosfera priva di calore e di connessioni umane. Allo stesso modo, i film di Antonioni sono popolati da personaggi distaccati e cinici, le cui relazioni sono dominate da uno schiacciante silenzio.
Michelangelo Antonioni realizza la Trilogia dell’Incomunicabilità a cavallo tra il 1960 e il 1962, dando vita a tre pellicole in cui Monica Vitti, la musa del regista, interpreta sempre un ruolo da protagonista.
L’avventura è il primo capitolo, realizzato nel 1960: Anna e Claudia, due amiche, partono per un viaggio in barca tra le Isole Eolie insieme a Sandro, fidanzato di Anna, e altri amici. Durante l’escursione, però, Anna scompare: l’evento dà il via a delle ricerche che andranno avanti per mesi, durante i quali Sandro e Claudia si avvicineranno fino a innamorarsi, instaurando una relazione ambigua fondata sulla segreta speranza che Anna non venga mai trovata viva. Si tratta di un film che mescola generi differenti, dal giallo al drammatico, senza però soffermarsi in modo incisivo sulla trama, tant’è che la ricerca della donna scomparsa passa completamente in secondo piano: la storia è infatti un pretesto per raccontare la precarietà dei sentimenti dei giovani borghesi protagonisti e la loro difficoltà nel costruire relazioni solide e sincere. L’instabilità e l’incertezza dominano uno scenario in cui i rapporti umani sono vuoti tanto quanto le vite degli individui.
Nel secondo film, La notte, del 1961, lo spettatore segue per una giornata una coppia in crisi, Giovanni e Lidia (interpretata da Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau), i quali affrontano diverse situazioni che mettono in risalto il loro distacco emotivo. I due partecipano a una festa a casa di una ricca coppia dove conoscono Valentina, la giovane e affascinante figlia dei padroni di casa, interpretata da Monica Vitti. In un lentissimo procedere di scene ricche di introspezione ma povere di azione, l’aspetto psicologico viene a galla e domina la pellicola. Antonioni forma un ritratto del tipico borghese di quegli anni: intellettuale di facciata ma in realtà superficiale, proprio come superficiali sono i rapporti umani, caratterizzati da una profonda incapacità di comunicare. I sentimenti di alienazione e distacco dalla realtà sono contestualizzati in una Milano industrializzata, fredda e impersonale, che amplifica l’isolamento umano in un contesto urbano sempre più in fermento.
A concludere la trilogia c’è L’eclisse, del 1962, in cui la protagonista Vittoria (Monica Vitti) lascia il compagno di cui non è più innamorata e conosce Piero (interpretato da Alain Delon), un agente di borsa con il quale intraprende una relazione dominata da silenzi e individualità, anziché da sentimenti profondi. Il film, ambientato a Roma, mostra una società sempre più vivace e immersa in un crescente benessere economico, ma al tempo stesso portatrice di una profonda crisi esistenziale.
Chissà perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi forse non bisogna volersi bene. (L’eclisse)
I tre film indagano la condizione umana, in particolare quella dell’uomo moderno che si scontra con una società in crescente sviluppo, ritrovandosi però sempre più isolato e alienato. Antonioni pone al centro la tematica dell’individualità e della solitudine umana in una civiltà conformista, evidenziando il conseguente disagio esistenziale. L’alienazione è sia individuale sia sociale: i personaggi si sentono estranei agli altri ma anche a loro stessi, incapaci di trovare un senso alle proprie azioni e relazioni. Essi sono spesso rappresentati mentre vagano senza meta attraverso i paesaggi urbani o naturali, simboleggiando la loro inconcludente ricerca di significato. Antonioni racconta la nascita di una società estremamente complessa, in cui desideri e speranze si moltiplicano insieme alla frustrazione di non riuscire a trovare la giusta direzione. In questo scenario disperato, l’amore diventa un’ulteriore fonte di isolamento e sofferenza, lontana dall’idea di amore salvifico e confortante.
I personaggi di Antonioni non sanno chi sono o chi vogliono essere e i loro contorni sfumano fino a confondersi. Vediamo due donne, Lidia e Valentina, allo stesso tempo complici e rivali, indossare abiti quasi identici, rappresentando una sorta di immobilismo che caratterizza le dinamiche sociali e personali. Ne L’avventura Claudia, indossando la camicia di Anna, prende metaforicamente il suo posto, assume le sua esistenza.
Il silenzio è il vero protagonista delle pellicole: i dialoghi sono essenziali, ridotti al minimo, e predominano lunghi silenzi riflessivi e indagatori. La parola non è adeguata a esprimere il profondo disagio che caratterizza gli individui, incapaci di spiegare la propria interiorità, ed è insufficiente per colmare la distanza tra le persone. L’assenza di parole è utilizzata come elemento espressivo che contribuisce a infondere quel disagio anche nello spettatore, riempiendo lo schermo e scavando un abisso intorno ai personaggi. L’uso del silenzio suggerisce l’esistenza di una realtà in cui la comunicazione ha perso significato e il vuoto ha preso il sopravvento: in questa prospettiva il silenzio non è solo un’assenza di suono, ma diventa assenza di senso, in una visione esistenzialista e cinica del mondo che rappresenta perfettamente la situazione in cui si trovano i personaggi. Il tutto è messo in scena con un ritmo estremamente lento e contemplativo, essenziale nella creazione di un’atmosfera di introspezione che esplora la percezione del tempo e la sua influenza sull’esperienza umana.
L’assenza di suono è strettamente legata alla composizione visiva dei film: gli spazi vuoti, riempiti dal silenzio e dalla desolazione, costituiscono lo scenario perfetto per le vicende. L’assenza è un elemento ricorrente nella trilogia come dimostrato dalle inquadrature finali de L’eclisse, in cui una successione di immagini della città deserta, privata della presenza dei protagonisti, esprime l’impossibilità della relazione che si rivela sostanzialmente vuota.
Nella trilogia di Antonioni esiste un forte legame tra interno ed esterno, tra sentimenti umani e ambiente circostante. In tutti e tre i film ogni individuo è perfettamente amalgamato nel contesto in cui è inserito, creando un parallelismo che ne esprime con efficacia lo stato d’animo. Un esempio è il paesaggio brullo dell’isola de L’avventura, che diventa specchio dell’aridità sentimentale dei protagonisti e del loro vuoto. Ne L’eclisse, invece, vediamo una Roma industrializzata e rigorosa fare da sfondo al dramma dei personaggi con edifici freddi, moderni, disumanizzati, in stile razionalista, creando un paesaggio dall’aspetto metafisico (che ricorda, ritornando all’ambito figurativo, l’arte di De Chirico). Gli ambienti urbani spogli, alternati a luoghi brulicanti di gente, definiscono l’alienazione e l’isolamento umano.
Antonioni, nella sua trilogia, attinge dalla corrente culturale e letteraria di quegli anni, riprendendo i nuclei tematici dell’alienazione umana e dell’esistenzialismo: la filosofia esistenzialista (e in particolare le idee di studiosi come Albert Camus) trova un eco evidente nei temi del regista. Antonioni evita deliberatamente di fornire risposte e spiegazioni all’interno dei suoi film, spostando l’attenzione sul disagio dei personaggi piuttosto che sulle vicende che li riguardano. Questa scelta riflette la prospettiva esistenzialista secondo cui la ricerca di senso è senza fine, poiché la verità ultima è inaccessibile o inesistente: la solitudine esistenziale è data dalla consapevolezza dell’assenza di significato. Il disagio e l’isolamento individuale fanno parte di un nucleo tematico riproposto innumerevoli volte nel cinema contemporaneo: ne è un esempio Wong Kar-wai che, in particolare con il film Fallen Angels (ne ho parlato qui), esplora i sentimenti degli individui solitari in un contesto di società dinamica e in continua evoluzione.
I protagonisti della trilogia di Antonioni mi hanno fortemente ricordato Meursault, protagonista de Lo straniero (Camus, 1942): impotenti di fronte alla consapevolezza dell’assurdità dell’esistenza e, per questo, indifferenti e apatici. Stranieri a loro stessi, agli altri e alla società intera, gli individui non sanno cosa fare e come comportarsi, e dunque non fanno niente, abbandonandosi all’incolmabile solitudine che è destino di tutti gli esseri umani. “Camus è riuscito in un’impresa impossibile: quella di descrivere l’esistenza come qualcosa che accade. È riuscito a descrivere come sia possibile sentirsi soli pur nel rumore dell’umanità, pur nascendo da essere umano, nonostante legami e vicinanze.” scrive Roberto Saviano nella prefazione del romanzo, con parole che riescono a descrivere anche i tre film di Antonioni. I ripetuti “non lo so” di Vittoria ne L’eclisse ricordano tanto i “per me è lo stesso” di Meursault: si tratta di un’esistenza che scivola addosso, insieme a tutte le relazioni che la compongono.
Marie è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volessi sposarmi con lei. Le ho detto che per me era lo stesso e che se voleva potevamo farlo. Allora ha voluto sapere se la amassi. Le ho risposto come avevo già fatto un’altra volta, che non significava niente ma di sicuro non la amavo. “Allora perché sposarmi?” Ha detto. Le ho spiegato che non aveva nessuna importanza. (Lo straniero)
La Trilogia dell’Incomunicabilità di Michelangelo Antonioni ha costituito un punto di svolta nel cinema italiano, rappresentando il preludio di un nuovo modo di realizzare i film e introducendo nuove tecniche e tematiche che diventeranno centrali negli anni successivi.